“È insostenibile”, ha detto René Redzepi al New York Times qualche giorno fa. Lo chef pluripremiato del Noma, uno dei ristoranti più blasonati e discussi al mondo, ha confessato che dare una paga dignitosa a tutti i collaboratori (compresi gli stagisti, che ha iniziato a pagare dallo scorso ottobre) non è sostenibile per tenere aperto il suo ristorante; un ristorante il cui menù si aggira attorno ai 470 euro (bevande escluse).
Sembra una boutade, un pesce d’aprile; eppure, dopo la virata de El Bulli, trasformato in fondazione privata nel 2013, nel 2025 anche il Noma chiuderà per concentrarsi completamente sul “Noma Projects“: un laboratorio alimentare dedicato all’innovazione del cibo a tempo pieno, dove creare nuovi prodotti e sviluppare un nuovo concetto di ristorazione e restaurant team .

Il vaso di Pandora, scoperchiato dalla pandemia due anni fa, sta offuscando sempre più il luccichio attorno al “lavoro più figo del mondo”, anche attraverso lo sfogo di tanti addetti ai lavori: “Non ne potevo più di lavorare 12 e oltre ore al giorno con paghe misere” è una frase sempre più frequente.
I punti di vista sono diversi, spesso antitetici, e non tutti concordano con la visione di Redzepi. “Da noi gli stagisti li paghiamo da sempre, senza il bisogno di fare articoli in giro per il mondo”, gli fa da contrappeso chi si trova ai vertici della ristorazione mondiale, “In un mondo normale, se una persona lavora deve essere pagata e basta. Altro che sustainable gastronomy!”.

Eppure tutti noi appassionati di cibo, come ricerca e forma d’arte, siamo stati ben felici di partecipare al processo innovativo con i nostri conti a quattro cifre, pur di poter assaggiare i piatti più geniali e innovativi al mondo; non ci siamo mai illusi che la qualità non si pagasse.
Ora anche noi ci chiediamo: è davvero diventato impossibile fare innovazione gastronomica continuando, contemporaneamente, a servirla ai clienti di un ristorante, oppure è un’astuta campagna di marketing? È davvero impossibile fare innovazione che sia sostenibile, sia per chi ci lavora, sia per chi paga per assaggiarla? Che sia arrivato il momento di rivedere i costi del far parte dei grandi circuiti di stelle e concorsi, e riportare il cibo dalle classifiche ad un numero più ampio di tavole? La discussione è aperta.
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